Il DNA nelle indagini

DNA, Il DNA nelle indagini

Nell’ambito delle indagini forensi, siano esse scene del crimine, studi evoluzionistici o più semplicemente test di parentela, il DNA (acido desossiribonucleico) rappresenta uno strumento estremamente importante. Questa molecola permette l’identificazione degli individui, dei rapporti di parentela, il riconoscimento di malattie ed anche del percorso migratorio delle popolazioni del passato.

Il DNA è principalmente estratto da sangue, saliva, ossa, denti, tessuti biologici, urina, sudore, feci, liquido seminale e formazioni pilifere. Successivamente si eseguirà un flusso di lavoro più consono all’ambito di ricerca corrispondente.

La più piccola unità funzionale degli esseri viventi è la cellula. Tranne alcune eccezioni, nelle cellule sono presenti due tipi di DNA: nucleare e mitocondriale. Sebbene facenti parte di una stessa cellula, queste due molecole hanno in realtà caratteristiche molto diverse tra loro.

Il DNA nucleare

Il DNA nucleare, come suggerisce il nome stesso, è racchiuso nel nucleo della cellula (Fig. 1).
Strutturalmente si presenta come la caratteristica doppia elica che siamo abituati a pensare ogniqualvolta si fa riferimento al DNA.
Lungo più di due metri, per poterlo racchiudere nel nucleo, viene avvolto molte volte su sé stesso (superavvolgimento) ed arrotolato attorno a proteine globulari dette istoni. Questa peculiare collana di perle prende il nome di cromatina.

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Fig. 1. Il DNA nucleare.

Quando la cellula non è in divisione, la cromatina si presenta come una massa arruffata di filamenti lunghi e sottili. Durante la divisione cellulare invece, le fibre di cromatina si condensano dando origine a strutture ordinate: i cromosomi. Ogni cromosoma è costituito da due parti bastoncellari identiche dette cromatidi, legate insieme in un punto, il centromero, non necessariamente centrale. Il numero e la dimensione dei cromosomi è peculiare per ogni specie. Nell’uomo sono presenti 23 coppie di cromosomi, per un totale di 46. Ogni cromosoma è presente in doppia copia: uno di origine materna e uno paterno. Di queste, 22 coppie sono costituite dagli autosomi, cromosomi presenti sia nei maschi che nelle femmine. L’altra coppia è rappresentata invece dai cromosomi sessuali che definiscono il sesso dell’individuo: XX per le femmine, XY per i maschi.

Il DNA nucleare costituisce il patrimonio genetico di un essere vivente, pertanto varia da soggetto a soggetto, ma è lo stesso in ogni sua cellula. Esso è trasmesso ai figli come combinazione del materiale genetico di entrambi i genitori. Inoltre, è sottoposto al fenomeno di ricombinazione genica. Tale meccanismo permette lo scambio di porzioni omologhe di DNA tra cromatidi appartenenti a due cromosomi diversi. Questo rende il DNA unico ed irripetibile per ciascun individuo. Basti pensare che circa il 99,7% di DNA risulta comune tra tutti gli individui, differendo solo per lo 0,3%. Ciò implica che, prendendo a caso due individui, i loro genomi conterranno almeno 3 milioni di differenze. La probabilità di trovare due individui con lo stesso DNA è pertanto alquanto trascurabile, eccezion fatta per i gemelli omozigoti.

Normalmente le tecniche per l’identificazione personale si basano proprio su questa tipologia di DNA, ed in particolare sulle sue regioni variabili. Ogni individuo, seguendo le leggi di Mendel, potrà essere eterozigote o omozigote. Si parla di organismo eterozigote quando possiede due copie alternative di uno stesso gene (alleli): uno donatogli dal padre ed uno dalla madre. Uno dominante, fenotipicamente visibile, e l’altro recessivo. Viceversa, se i due alleli sono identici sarà omozigote.

Per l’identificazione però, non occorre indagare su tutto il genoma del soggetto, ma basta analizzare un numero ristretto di “zone”, i cosiddetti marcatori polimorfici. In particolare, si considerano alcuni loci genetici. Si definisce locus genetico una data posizione di un gene su un certo cromosoma.

Un polimorfismo è quando, su un determinato locus genetico, si trovano almeno due alleli e la frequenza di quello più raro nella popolazione è uguale o superiore all’1%.

I polimorfismi analizzati fanno parte del DNA non codificante. Il DNA infatti, non è costituito esclusivamente da geni che codificano per una proteina, ma anche da regioni denominate junk DNA (o DNA spazzatura). Esse sono sequenze nucleotidiche di lunghezza variabile ed altamente ripetitive (ad esempio ATATATATATA). Tali regioni però non codificano per nessuna proteina, ma, presumibilmente fungono da protezione e/o da “barre spaziatrici” tra i geni. Queste sequenze sono peculiari di un individuo e, su larga scala, anche di una popolazione.

Esistono molte tipologie di polimorfismi, principalmente distinti sulla base della loro lunghezza. Tra essi possiamo citare una forma molto semplice di DNA ripetitivo: gli STR (short tandem repeat). Un STR è una corta sequenza di poche basi (ad esempio CGC) che si ripete un numero di volte variabile da individuo ad individuo. Sono presenti su tutti i cromosomi, più o meno ogni 10.000 basi.

Il punto di partenza per ogni analisi genetica riguarderà pertanto l’osservazione di uno o più caratteri e la relativa variabilità nei diversi individui.
Ad esempio, si considera un dato locus genetico di un individuo. Su esso possiamo trovare un allele che presenta sette ripetizioni STR, ipotizziamo ereditato dalla madre. Spostandoci poi nell’altro cromosoma, sullo stesso punto, troviamo invece otto ripetizioni STR, donate dal padre.

Ovviamente più caratteri di confronto si prenderanno, più aumenterà la probabilità di assegnare l’identità corretta a quel dato individuo. Attualmente, la banca dati criminalistica americana sui profili di DNA, il CODIS (Combined DNA Index System), stabilisce l’utilizzo di un set di 13 STR. Tale set rispecchia il profilo completo di un soggetto.

Diviene tutto molto più complicato quando trattiamo il DNA nucleare nei reperti antichi. Questo, non solo è sottoposto a forti fenomeni diagenetici quali la frammentazione della molecola, ma vi è anche una certa difficoltà nell’autenticare le sequenze estratte. Il DNA nucleare però rappresenta una vera e propria carta di identità. Il suo recupero nel caso dei reperti antichi, donandoci informazioni dettagliate, può aiutarci a rispondere a domande ancora aperte.

Il DNA mitocondriale

Il genoma mitocondriale è invece contenuto nei mitocondri, piccoli organelli cellulari fondamentali per il rifornimento energetico della cellula (Fig. 2).

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Fig. 2. Il DNA mitocondriale.

Utilizzato per i test di parentela e le ricostruzioni di alberi genealogici, diviene di straordinaria importanza in ambito evoluzionistico, in quanto indicatore stabile dell’evoluzione umana.

Il DNA mitocondriale umano è costituito da una doppia elica circolare di 16.569 bp (paia di basi). Esso però codifica “solo” per 37 geni, principalmente riguardanti il metabolismo energetico della cellula. Le altre proteine necessarie alle funzioni mitocondriali vengono sintetizzate nel nucleo e trasportate poi nel mitocondrio.

I due filamenti che lo costituiscono hanno differente peso molecolare e sono denominati convenzionalmente con H (Heavy, pesante) in quanto ricco di residui guaninici, ed L (Light, leggero) poiché abbondante in citosina.

È inoltre dotato di una regione non codificante denominata D-loop o regione di controllo. Questa, è divisa in altre piccole sottoregioni: HVRI, HVRII (entrambe di circa 400 bp) e la meno conosciuta HVRIII. Tali subregioni sono dette ipervariabili. Contenenti infatti ben il 92% dei siti polimorfici, accumulano mutazioni con un tasso costante nel tempo (circa 1-2% di mutazioni per milioni di anni). Ciò permette di poter individuare una linea familiare, stimandone il tempo e la discendenza. Quest’ultima informazione è legata anche ad un’altra caratteristica del DNA mitocondriale. A differenza di quello nucleare infatti, esso è ereditato in genere per via materna, poiché presente nei mitocondri cellulari degli oociti. Gli spermatozoi hanno mitocondri per lo più localizzati a livello della coda e con l’unica funzione di fornire energia per il movimento. Durante la fecondazione la coda dello spermatozoo rimarrà all’esterno, non portando dunque, in genere, contributo paterno al genoma mitocondriale.

La linea di discendenza mitocondriale è quindi generalmente dovuta ad una sola antenata che ha trasmesso il suo DNA mitocondriale praticamente inalterato nel tempo. Ogni discendente avrà dunque lo stesso genoma mitocondriale. In altre parole, tutti i figli di una donna hanno il suo stesso DNA mitocondriale. Questo, sarà pari anche al genoma mitocondriale della nonna materna, della zia (sorella della madre) e dello zio (fratello della madre). Grazie a questa caratteristica, in assenza della madre, i test di parentela possono essere estesi a tutti i parenti materni.

Il DNA mitocondriale tuttavia, rappresenta solo lo 0,0006% del genoma totale di un individuo. Questo però non si rivela un limite. Al contrario di quello nucleare, è difatti presente in ogni mitocondrio e dunque in un numero elevato di copie per cellula. Basti pensare che ogni cellula contiene più di 50 mitocondri. Con un rapido calcolo, in ciascuna cellula, ci saranno dalle 10.000 alle 100.000 molecole di DNA mitocondriale (mentre solo una per quello nucleare). Inoltre, proprio perché risiede nei mitocondri, permette di ampliare il campo di analisi. Molte cellule infatti sono anucleate, ossia prive di nucleo. Tra queste vi sono batteri, alghe azzurre e cellule altamente specializzate come globuli rossi e capelli. Tali cellule, sfruttandone i mitocondri, potranno essere utilizzate per le analisi genetiche.

Tutte queste proprietà del DNA mitocondriale sono importantissime anche (e soprattutto) per le applicazioni sul DNA antico. Trovandosi sui molteplici mitocondri, la probabilità di trovare frammenti di DNA da resti degradati o risalenti anche a migliaia di anni fa aumenta notevolmente. Infatti, se la lettura del DNA antico nucleare non è possibile, in quanto scarso e degradato, possiamo sfruttare le caratteristiche del genoma mitocondriale. Chiaramente, visti i geni prettamente funzionali che possiede, esso non ci darà informazioni dettagliate, ad esempio sui caratteri fenotipici dell’individuo. Tale genoma potrà però far luce sulle relazioni di parentela, sui flussi migratori e, su larga scala, anche sull’evoluzione umana.

Vale la pena citare anche il corrispettivo maschile del DNA mitocondriale: il cromosoma Y. In modo del tutto analogo al DNA mitocondriale, può essere un altro valido strumento per lo studio dell’evoluzione umana e delle relazioni parentali. L’unica differenza è che, ovviamente, in questo caso tale materiale genetico sarà ereditato esclusivamente per via paterna, di padre in figlio.

Dead man talking: i reperti non mentono

Va precisato che il test del DNA deve essere contestualizzato da indagini di altra natura. Ad esempio, se parliamo di reperti antichi, si dovrà analizzare anche il contesto archeologico. Può capitare infatti che la veridicità del test possa venire fortemente compromessa.
Si deve necessariamente eseguire la repertazione e la catalogazione dei campioni seguendo meticolosamente le norme anticontaminazione. Se il campione viene contaminato o repertato in maniera inadeguata, si rischia di definire profili genetici incompleti o errati.
In alcuni casi tuttavia, è comunque molto complicato. Come abbiamo precedentemente accennato, infatti, è del tutto impossibile distinguere il profilo genetico di gemelli omozigoti (identici).

Un esempio di repertazione inadeguata, lo possiamo riscontrare in uno dei casi di cronaca più famosi: l’omicidio di Meredith Kercher. Tralasciando l’ambito penale, si riscontrarono, tra le altre, tracce di DNA su un coltello da cucina ed un gancetto del reggiseno di Meredith. Tali materiali genetici appartenevano ad Amanda Knox, coinquilina della vittima, e al suo fidanzato dell’epoca, Raffaele Sollecito. Tuttavia i test del DNA vennero giudicati inattendibili dai periti del processo di appello. Furono difatti considerati quantitativamente troppo scarsi e quasi sicuramente contaminati a livello ambientale. L’analisi del DNA da potente strumento di identificazione si rivelò debole e di scarso peso.

Stesso discorso vale anche per il DNA antico, quando ad esempio ci troviamo di fronte a necropoli con sepolture multiple.

Per evitare la contaminazione e la perdita di informazioni di questa preziosa molecola si deve necessariamente predisporre di un equipaggiamento specifico per la repertazione dei campioni ed attenersi a criteri di sterilità adeguati.

Lavorando al meglio verso una corretta definizione del profilo genetico di un individuo, “oltre ogni ragionevole dubbio”, si rivela l’enorme potenziale della nostra impronta genetica. Ossa, denti e altri materiali biologici raccontano la nostra storia, devono solo essere ascoltati.

Bibliografia

Caramelli D., Lari M. (2004). Il DNA antico. Metodi di analisi e applicazioni. Angelo Pontecorboli Editore Firenze
Tagliabracci A. (2009). Introduzione alla genetica forense. Springer

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