Neuromiti – quanto poco conosci il tuo cervello

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Quanto poco conosci il tuo cervello? Il termine “Neuromiti” è stato coniato da L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) e si riferisce alla traduzione di risultati scientifici in disinformazione sull’educazione.

Il primo neuromito è forse anche il più famoso: usiamo solo il 10% del nostro cervello. Secondo un sondaggio del 2008 diretto da Robynne Boyde [1], il 65% degli Americani crede che usiamo solamente il 10% del nostro cervello, suggerendo che si possa accedere al resto del potenziale non usato e incrementare la propria intelligenza. L’origine di questo mito potrebbe attribuirsi al lavoro del vincitore del Premio Nobel Roger Sperry, che notò differenze nel cervello quando studiava persone il cui cervello destro e sinistro erano stati separati chirurgicamente. Nonostante ciò, il neurologo Barry Beyerstein propose 7 diverse evidenze che confutavano questo mito [2], analizziamole insieme:

  1. Se effettivamente usassimo il 10% del nostro cervello, allora un eventuale danno a questo organo non dovrebbe procurare degli effetti dannosi al resto dell’organismo; tuttavia, anche una minima lesione del sistema nervoso centrale può portare alla perdita di funzioni fondamentali per il corpo umano.
  2. Alcune tecnologie come la Tomografia ad emissione di positroni (PET) e l’imaging di risonanza magnetica funzionale (fMRI) mostrano chiaramente che l’intero cervello è sempre attivo, a prescindere dall’attività che si sta compiendo, e alcune aree sono più attive di altre. Come detto sopra, una minima lesione del cervello può rendere “silenti” alcune aree.
  3. Il terzo punto è leggermente più complicato: se consideriamo che il cervello richiede una grande quantità di energia per funzionare (circa il 20% dell’energia totale del nostro corpo in termini di ossigeno e glucosio), considerando il solo uso del 10% del cervello, il restante 90% sarebbe inutile. Dal punto di vista delle selezione naturale, sarebbero avvantaggiati gli individui con un cervello di dimensioni molto minori, perché sarebbe inutile utilizzare molta energia per alimentare il 90% di un organo che non viene utilizzato.
  4. Negli anni, il cervello è stato mappato sia a livello anatomico che funzionale e non è stata trovata alcuna traccia di zone prive di funzioni.
  5. Con l’avvento dell’elettrofisiologia, e soprattutto di metodi di registrazione chiamati “single-unit recordings” si è raggiunta la capacità di misurare l’attività elettrica (quindi ciò che “rende vivo” il neurone) di una singola cellula usando microelettrodi. Se il 90% del cervello non fosse utilizzato, tecniche così precise sarebbero state in grado di registrare questa assenza di attività neurale.
  6. I neuroni comunicano tra di loro instaurando delle sinapsi, che sono strutture altamente specializzate. La plasticità sinaptica, ovvero l’abilità del cervello di intensificare o ridurre l’intensità di queste comunicazioni, è una proprietà fondamentale che permette di modificare strutturalmente e funzionalmente il cervello. Un tipo di plasticità sinaptica si esplica mediante il “synaptic pruning” (potatura sinaptica), ovvero l’eliminazione delle sinapsi che avviene durante lo sviluppo e la maturazione del cervello. Tutto questo per dire semplicemente che le cellule nervose che non vengono utilizzate hanno la tendenza a spegnersi, a degenerare. Per cui, anche a seguito di una semplice autopsia, si vedrebbe una massiccia degenerazione di quel 90% di cellule non utilizzate.
  7. Studi metabolici.

Il secondo neuromito è quello della lateralizzazione del cervello: Il lato sinistro è quello tecnico, dell’elaborazioni delle informazioni, della logica, invece quello destro racchiude l’istinto e la creatività. Quante volte abbiamo letto questa nozione negli ultimi anni, con annessi test “right-brain vs left-brain”. Ma è effettivamente così? Una possibile origine è da attribuirsi agli psicologi di Harvard William James e Boris Sidis che negli anni 1890 che lavoravano con il bambino prodigio William Sidis, affermando che le persone posseggono solo una frazione del loro pieno potenziale mentale. Uno studio del 2013 [3] ha esaminato l’attività degli emisferi destro e sinistro di oltre 1.000 cervelli, usando uno scanner MRI, mostrando che non sembra esserci un lato dominante. Nonostante ci sono alcuni studi che mostrano delle attività specifiche di un emisfero, come il centro del linguaggio che si trova a sinistra, le analisi suggeriscono che un singolo cervello non può essere definito globalmente come” sinistro ” o ” destro ”, ma la lateralizzazione asimmetrica è una proprietà di singoli “centri” o sottoreti locali. C’è da considerare, però, l’esagerazione culturale popolare di questi risultati che ha portato allo sviluppo di credenze errate: la teoria secondo cui una persona ha il cervello sinistro o destro non è supportata dalla ricerca scientifica, nonostante alcune persone potrebbero scoprire che la teoria dietro questa convinzione si allinei alle loro attitudini (essere creativi non significa avere predominanza di emisfero destro). Eppure, non dovrebbero fare affidamento su di esso come un modo scientificamente accurato per comprendere il cervello.

Quante volte abbiamo sentito dirci, anche a scuola, che i neuroni e il tessuto nervoso non si rigenerano, ma, anche questo, è falso, o comunque non completamente vero. La neurogenesi è il processo di formazione di neuroni a partire da cellule staminali neuronali e fino a una ventina di anni fa si è creduto fosse una capacità limitata allo sviluppo, ma ora siamo a conoscenza di una neurogenesi che avviene nell’adulto. Questo processo, nei mammiferi avviene in due zone [4]:

a) La zona subgranulare (SGZ), parte del giro dentato dell’ippocampo, dove le cellule staminali neurali danno vita a cellule granulari (implicate nella formazione e nell’apprendimento della memoria).

b) La zona subventricolare (SVZ) dei ventricoli laterali.

Il ruolo dei nuovi neuroni nella funzione cerebrale adulta rimane poco chiaro. Tuttavia, la neurogenesi nell’ippocampo umano sostiene che questo processo può avere importanti implicazioni per la funzione e la malattia del cervello umano. Sarà molto interessante, seppur impegnativo, provare a decifrare il ruolo funzionale della neurogenesi adulta nella normale funzione cerebrale, nonché il ruolo della neurogenesi potenzialmente alterata nella malattia umana.

L’ultimo neuromito di cui vi parlerò riguarda la distribuzione della percezione dei sapori. Il cacao è amaro, le patatine sono salate, il limone è acido, il bignè è dolce e il brodo di pollo è umami (gusto che si riferisce alla percezione del glutammato, nonché di cibi ricchi di proteine come carni e formaggi). Questi sono i cinque gusti di base che conosciamo. Ma come si riconosce ogni gusto e come si distingue l’uno dall’altro? Ti verrebbe da pensare a quel diagramma di una lingua che mostra aree specifiche per ogni gusto, ma, sorpresa, è sbagliato. “La lingua non ha regioni diverse specializzate per gusti diversi […] tutte le regioni della lingua che rilevano il gusto rispondono a tutte e cinque le qualità del gusto“, afferma Brian Lewandowski, neuroscienziato ed esperto di gusto presso il Monell Chemical Senses Center di Filadelfia. Da dove viene la mappa della lingua? Tutto è iniziato con un articolo del 1901 dello scienziato tedesco David Hänig, in cui il grafico potrebbe dare l’impressione che diverse aree della lingua fossero responsabili di alcuni gusti. Negli anni ’40, Edwin Boring ridisegnò la figura del suo libro sui sensi e sulla percezione. Il risultato fu una figura che mostrava una lingua con varie regioni evidenziate e un singolo gusto elencato per ciascuna. Questa mappa linguistica è diventata standard nei libri di testo scientifici e, sfortunatamente, gli studenti continuano a conoscere questo mito oggi.

La semplicità della mappa della lingua si presta a una facile comprensione, tuttavia, per capire come funziona davvero il gusto,q bisogna dare un’occhiata più da vicino alle cellule specializzate della lingua. Ogni persona ha tra le 5.000 e le 10.000 papille gustative, ognuna contenente da 50 a 100 cellule sensoriali specializzate che rilevano gli stimoli del gusto. Circa la metà delle cellule sensoriali reagisce a diversi dei cinque gusti di base, mentre L’altra metà delle cellule sensoriali e delle fibre nervose è specializzata per reagire a un solo gusto [5]. La piena esperienza di un sapore viene prodotta solo dopo aver combinato tutti i profili delle cellule sensoriali delle diverse parti della lingua. Supponendo 5 gusti di base e 10 livelli di intensità, sono possibili 100.000 sapori diversi. Presi insieme ai sensi del tatto, della temperatura e dell’olfatto, ci sono un numero enorme di diversi possibili sapori. Le sostanze che ingeriamo entrano in contatto con proteine recettoriali specializzate sulle cellule del recettore del gusto, innescando una scarica di segnali neurali, che alla fine vengono indirizzati verso un’area del cervello dedicata all’elaborazione delle informazioni sul gusto, la corteccia gustativa primaria. La corteccia gustativa interpreta i segnali in arrivo e li integra con altre informazioni sensoriali, come gli odori, permettendoci di percepire i sapori. In altre parole, il nostro senso del gusto è molto più complesso di quanto la mappa della lingua vorrebbe farci credere.

Questi neuromiti sono a rappresentanza di un problema molto più esteso e più ampio. È importante mantenere una mentalità critica e uno scetticismo costante.

BIBLIOGRAFIA

[1] Robynne Boyd, “Do People Only Use 10 Percent Of Their Brains?,” Scientific American, February 7, 2008.

[2] Beyerstein, Barry L. (1999). “Whence Cometh the Myth that We Only Use 10% of our Brains?”. In Sergio Della Sala (ed.). Mind Myths: Exploring Popular Assumptions About the Mind and Brain. Wiley. pp. 3–24.

[3] An Evaluation of the Left-Brain vs. Right-Brain Hypothesis with Resting State Functional Connectivity Magnetic Resonance Imaging. Jared A. Nielsen et al.

[4] Ming, G. & Song, H. Adult neurogenesis in the mammalian brain: significant answers and significant questions. Neuron 70, 687–702 (2011).

[5] How does our sense of taste work? Cologne, Germany: Institute for Quality and Efficiency in Health Care (IQWiG); 2006

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