La psicanalisi del cibo

La psicanalisi del cibo, La psicanalisi del cibo

Quando introduciamo un cibo nel nostro organismo nutriamo il corpo, ma anche la mente: ci saziamo di alimenti ma anche di simboli, di tradizioni. Il cibo infatti, rappresenta nella storia delle culture uno dei momenti centrali della ritualità collettiva, ed è uno dei canali più usati dall’uomo per comunicare con gli altri. Mangiare insieme (carattere tipico, se non esclusivo, della specie umana) è un altro modo ancora, per trasformare il gesto nutrizionale dell’alimentazione in un fatto eminentemente culturale. Ciò che si fa assieme agli altri, infatti, assume un significato sociale, un valore di comunicazione. Il comportamento alimentare diviene in questo senso un importante “rivelatore”: l’uomo è ciò che mangia, certo, ma è anche vero che mangia ciò che è, ossia alimenti totalmente ripieni della sua cultura. (1)
In ogni cultura si sono sviluppate una serie di pratiche ed abitudini connesse di volta in volta alle modalità di allattamento, ai rituali di svezzamento, alla ricerca del cibo, alla raccolta e alla conservazione dello stesso; in ogni sistema sociale, quindi, il cibo in quanto garanzia di sopravvivenza ha indirettamente generato una “cultura della nutrizione” alla quale viene educato il neonato. Una società che mancasse di coltivare al suo interno tali pratiche e costumi non potrebbe sopravvivere a lungo: per questo motivo gli antropologi parlano anche di “funzione sociale” insita nelle abitudini relative alla cura e all’allevamento del bambino.
Il concetto di nutrizione esiste già nella fase prenatale, attraverso il cordone ombelicale, dopo la sua recisione, lo stile di alimentazione necessita ovviamente di cambiare attraverso il rito della suzione del seno (o di un suo surrogato). Il nutrirsi al seno è solo in parte un automatismo innato; in realtà il bambino impara attraverso l’esperienza come, quanto e in quali momenti soddisfare il desiderio di cibo. Possiamo perciò dire che il cibo si offre come il paradigma di ogni altro bisogno che in seguito il nascituro si troverà costretto ad affrontare nella sua esistenza. Eccoci, dunque, dinanzi al momento più toccante e delicato di tutta l’esistenza umana, perché, nel ricevere attraverso il seno materno il primo pasto, avviene anche il primo incontro cOn un altro soggetto del mondo esterno ( la madre). Teniamo presente che nella mente resettata di un neonato il concetto di Altro, diverso da lui, non esiste; fino a quel momento ha conosciuto e sperimentato solo una sensazione di fusione con il corpo della madre. Il primo incontro dunque, interrompe in parte quella sensazione di unità conosciuta fino a quel momento. In parte” perché ancora nella mente del nascituro quel corpo esterno ed estraneo rimarrà concepito come prolungamento di sé, ma ormai la strada è segnata, il taglio è dato, e il tempo renderà presto onore al vero. Durante l’allattamento il bambino ha imparato a nutrire fiducia, provando la prima esperienza del “male e del castigo”, poi, acquisisce il sentimento della sfiducia; la fiducia raggiunta durante l’allattamento, così come la sfiducia conseguita durante lo svezzamento, sono sentimenti che, trasformandosi durante epoche successive rispettivamente in speranza e in rassegnazione, accompagneranno l’individuo per tutta la vita.(2) Tradizionalmente lo svezzamento avviene verso il sesto mese di vita del bambino e viene di solito messo in atto a partire dalla così detta “fase dello specchio” che Jacques Lacan definisce come prima esperienza di identificazione, da parte del bambino, il cui l’urlo giubilatorio conferma, tramite il volto sorridente della madre, il rovesciamento e il superamento della sua posizione di totale dipendenza da lei. Se manca lo svezzamento, manca la separazione dal corpo madre-figlio fino a quel momento costante ad ogni pasto. E’una separazione spesso dolorosa, solo parzialmente attenuata dal ritorno della madre, che offre tenerezza, dice parole sullo svezzamento, ma non dà più la poppata. Jacques Lacan nel testo: “I complessi familiari”(3) dedica allo svezzamento una delle costruzioni teoriche più significative, definendolo “complesso di svezzamento”. Lo svezzamento segna una traccia permanente della interruzione del bambino con il corpo della madre. Se solo consideriamo il bambino attaccato al seno materno, questo soddisfacimento ci appare con i segni della massima pienezza con cui il desiderio umano possa essere colmato. Le sensazioni propriocettive della suzione e della prensione stanno alla base di una ambivalenza del vissuto, che è frutto della situazione stessa: l’essere che assorbe è a sua volta completamente assorbito e nell’abbraccio materno si fonda il complesso di svezzamento.
Prima ancora che con gli occhi o con le orecchie, ancora in rodaggio al momento della nascita, la bocca è già al pieno della sua funzionalità e si propone come il primo canale d’entrata del mondo esterno. In questo inedito atto di suzione in cui si scorgono le prime tracce di masticazione (ancora senza denti), c’imbattiamo in un ulteriore paradigma: quello del piacere. Rappresenta cioè il primo incontro con la sensazione del piacere, che il neonato non ha mai sperimentato prima: cioè questo nuovo soggetto scopre tutto a un tratto che c’è un comportamento che coinvolge un altro essere esterno e distinto da lui, in grado di generargli una sensazione tale da desiderare che questa accada ancora e ancora, e che quindi orienterà, consapevole o meno, i successivi comportamenti in modo tale da ritrovarsi davanti a quella sensazione. Ma la regola vuole che dove c’è sensazione di piacere, poco dopo possa subentrare la sua compagna di strada naturale: la colpa. Se ogni sintomo può essere, come scoperto da Freud, la risposta ad un senso di colpa (come vuole l’etimologia inglese, in cui SIN significa colpa, SIN-TOMO cioè luogo della colpa), non sorprende che la religione cristiana abbia assunto proprio la consumazione di cibo (la mela proibita di Eva) come paradigma di una condanna alla sofferenza terrena (la vita extrauterina esposta alla sensazione dolorosa della mancanza e del bisogno) e all’ineluttabilità della morte. Non c’è bisogno di citare i testi sacri delle religioni per constatare questa regola aurea, piacere e colpa sono sensazioni vicendevoli, reciproche, che si alternano. E dobbiamo per questo tenere bene a mente che il mangiare, il cibo, l’alimentazione, che come abbiamo visto incarnano lo scenario del primo incontro con il piacere, richiamano su di sé anche la prima inedita sensazione di colpa. Abbiamo parlato finora del cibo come paradigma del dono d’amore, del piacere, dell’incontro. Fino a qui, se non fosse per la colpa, che s’intravede costeggiando il piacere, potremmo tracciare un bilancio positivo. Ma non è così. Se ci spostiamo in un’età un poco più matura e consapevole, sostituendo il seno dell’allattamento ad una tavola apparecchiata, noteremo come le parole e le dinamiche familiari non cambieranno di molto: “ha dato più cibo e quindi più amore a mio fratello, ha servito prima mia sorella, ha paragonato il mio peso o il mio cibo a quello di un altro, e così via”. Insomma il cibo si presta sempre per essere veicolo di dinamiche che coinvolgono l’Altro, che instaurano con l’Altro una domanda di attenzioni unilaterali e che degenerano nella sofferenza e nell’odio se e quando queste vengono disattese. Attraverso una metafora vorrei esprimere come il cibo si comporta spesso come il cavallo di Troia che si presenta donato come un segno d’amore ma che per i numerosi motivi appena esposti, può tramutarsi spesso in un infido portatore di pericoli, sofferenze e odio.

BIBLIOGRAFIA
1 Il cibo come linguaggio di Massimo Montanari
2 Edipo a tavola:Psicoanalisi del cibo, del corpo e dell’alimentazione Dott. Matteo Mugnani.

3 I complessi dello svezzamento di Jacques Lacan

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